Il progetto Carissimo Mario nasce da un corto circuito semiotico: una cartolina militare del 1918, rinvenuta per caso in un mercatino dell'antiquariato, lo stesso giorno in cui l'Unione Europea diffonde su TikTok un video su un ipotetico kit di sopravvivenza.
Due atti comunicativi distanti più di un secolo, ma accomunati da una stessa condizione: l'attesa di qualcosa che potrebbe precipitare.
Quella cartolina ha colpito l'artista non per ciò che racconta, ma per ciò che sospende.
Non parla di battaglie, ma di una licenza: dieci giorni fuori dal fronte, passati in fretta tra Firenze e Prato. Un frammento di vita scritto nel mezzo di un limbo, tra guerra e tregua, partenza e ritorno.
È lo stesso stato di incertezza che attraversa oggi l'Europa, formalmente in pace ma già immersa in una retorica di allerta, preparazione e controllo.
La cartolina dice poco, ma lascia intendere tutto: che la guerra abita anche i momenti in cui sembra non esserci.
Recupera la grafia fragile del soldato e la trasforma in font: un sistema di segni codificati, replicabili, distribuiti.
Il personale diventa collettivo. Il gesto diventa linguaggio.
Ma questo non è un esercizio di memoria formale. È una riflessione sul comunicare.
Carissimo Mario mette in tensione due epoche e due modelli: la lentezza della scrittura manuale e la rapidità algoritmica del presente. Il progetto interroga non solo cosa diciamo, ma come lo diciamo.
Che cosa resta del linguaggio, se non porta più responsabilità?
Cosa significa comunicare in un tempo in cui tutto è segnale e nulla è traccia?
A oltre un secolo dal 1918, il linguaggio del conflitto si è aggiornato, digitalizzato, distribuito in rete.
Ma la struttura di fondo, l'incertezza, la sospensione, la gestione simbolica della paura, è sempre la stessa.
In questo contesto, la cartolina non è un residuo: è un'interfaccia.
Comunica ancora.
E ci riguarda.